Siamo “utenti” passivi del futuro? Non secondo Roberto Paura, Presidente dell'Italian Institute for the Future e autore del libro Occupare il futuro, che da molti anni è impegnato nella ricerca e nella diffusione della previsione sociale: non solo per sbirciare nell'avvenire, ma soprattutto al fine di promuovere politiche “lungimiranti”, sostenibili, che tengano conto di interessi trasversali e transgenerazionali. Il futuro non accade, ma viene creato e, per Paura, a ciascuno dovrebbe essere data la possibilità (e il potere politico) di decidere quale avvenire preferire e costruire. La previsione non è una divinazione, ma la capacità di intercettare gli scenari del domani, sviluppando analisi a lungo termine attraverso la “scienza” dell'anticipazione.
Che cos'è la futurologia, come nasce e in cosa si differenzia dai futures studies?
Futurologia è l'idea che davanti a noi esista un singolo futuro che possiamo prevedere, questa visione trae origine dal positivismo. L'idea di una scienza del comportamento sociale inizia nel Novecento. Un famoso scrittore di fantascienza, Herbert Wells, diceva che il futuro noi possiamo prevederlo, possiamo conoscerlo esattamente, proprio come siamo in grado di conoscere il passato. Questa idea entra in crisi intorno agli anni Settanta, quando cominciarono le previsioni elaborate a partire dalla teoria dei giochi, attraverso le simulazioni informatiche e le prime applicazioni della cibernetica. Si trattava di previsioni fatte, soprattutto, in chiave militare, dal momento che si intendeva prevedere il prossimo conflitto mondiale. Tali metodi, però, si dimostrarono fallaci, poiché si capì che il “sistema mondo” è molto più complesso: non esiste un singolo futuro, ma esistono i “futuribili”, cioè tante diverse possibilità di futuro. Da tale presa di coscienza nascono, quindi, i futures studies, gli studi di futuri. Chiaramente al plurale, giacché racchiudono svariati orizzonti e poiché sono studi interdisciplinari, multidimensionali, che tentano di prendere in considerazione tutti gli aspetti sociali, politici, tecnologici, economici.
Quella dei futures studies è una disciplina che, in Italia, comincia con il famoso Club di Roma. Oggi, grazie all'istituto di cui è presidente, lei prosegue questa tradizione ma, al contempo, tenta di innovarla. In che modo?
Esatto, alla fine degli anni Sessanta nacque, in Italia, il Club di Roma, un'organizzazione voluta da un industriale, Aurelio Peccei, per cercare di capire come risolvere il problema di quella che lui chiamava la problematica globale, cioè l'insieme dei temi e delle sfide che stavano portando il Pianeta verso il collasso. In quegli anni vi parteciparono personalità molto importanti. Oggi, con l'Italian Institute for the Future, proviamo a rinnovare gli studi sul futuro, cercando di rispondere a quelle stesse domande: vogliamo anche noi capire quali sono le grandi sfide e, soprattutto, le grandi tendenze del prossimo futuro. Ci interessa individuare i “mega-trend” che potranno avere un impatto sul sistema nazionale, prendendo in considerazione le tendenze demografiche, il processo di invecchiamento della popolazione, il declino democratico, le tendenze tecnologiche globali, la grande rivoluzione rappresentata dalla nuova Era spaziale, il cambiamento climatico, eccetera. Non è un'ambizione che ci poniamo soltanto noi, ma l'aspetto peculiare del nostro istituto è proprio l'utilizzo di un approccio multidisciplinare che possa davvero costruire scenari diversi, tenendo conto di molteplici aspetti.
Lei ha parlato di “teoria dei giochi”. In che misura la “simulazione” e il “gioco” possono contribuire a comprendere il futuro?
La teoria dei giochi nasce negli anni Cinquanta, subito dopo il secondo dopoguerra, grazie ad alcuni matematici che si raccolsero intorno a un'idea: l'essere umano sia un attore razionale e, proprio per questo, è possibile ridurre i suoi comportamenti a equazioni e quindi anche prevederli. Le prime applicazioni furono strettamente militari.
Si ragionava, soprattutto, sull'ipotesi di una nuova guerra nucleare: il fine ultimo era prevedere come gli Stati Uniti e l'Unione Sovietica, due attori razionali, si sarebbero comportati nella corsa agli armamenti e se sarebbe scoppiata una guerra, chi l'avrebbe cominciata e, soprattutto, come sarebbe andata a finire. Successivamente, la teoria dei giochi venne applicata anche al campo economico, l'applicazione che oggi è più utilizzata e che mira, fondamentalmente, a prevedere il comportamento economico dell'essere umano razionale. La stessa teoria la ritroviamo applicata anche nell'ambito del cosiddetto “sé quantificato”, laddove si ritiene sia possibile descrivere un singolo individuo sulla base dei dati che produce. Sostanzialmente, in una società sempre più digitalizzata e gamificata, l'individuo viene ridotto a un “utente” di cui siamo in grado di conoscere le preferenze d'acquisto come quelle politiche, di voto. È attraverso tale sistema che, nel 2016, si cercò di capire, usando i social network, come l'elettorato americano avrebbe votato alle elezioni presidenziali. Allo stesso modo, tutte le app che ogni giorno utilizziamo, consentono di fotografare i diversi “sé quantificati”, di trasformare gli “individui” in “utenti”.
Questa è anche la dimensione problematica della gamification, della futurologia, dello sviluppo tecnologico…
La gamificazione – che viene dalla teoria dei giochi – ha l'intento di stimolare l'utente a rilasciare dati: siccome non possiamo pagarlo, gli offriamo una dinamica di premio/punizione, come i like ai post o i punti e i premi per passare di livello. Su questa dinamica si intende basare anche il metaverso. Chiaramente, rispetto alla logica che vorrebbe quantificare i comportamenti dell'individuo, io sono un po' critico. Sia perché non si sa quanto questa possa essere una prospettiva realistica, sia perché ridurre l'uomo a una sola dimensione può produrre effetti negativi sotto il profilo della semplificazione della complessità e sotto quello del controllo. Tra i rischi, inoltre, vi sono quelli di influenzare il comportamento individuale, dell'hackeraggio, delle fake news…
A proposito del rischio di influenzare i comportamenti individuali: il futuro lo creiamo o lo subiamo? E si tratta di un orizzonte “possibile” o “probabile”?
Davanti alla parola “futuro”, la prima cosa a cui viene da pensare è la possibilità di prevederlo, quindi ci interessiamo all'orizzonte della probabilità. Certamente il futuro ha delle componenti di prevedibilità: esistono mega-trend di cui siamo abbastanza certi, per esempio le tendenze demografiche ci dicono che a metà secolo saremo dieci miliardi. Su altri aspetti, però, prevale l'orizzonte della preferibilità: è il futuro che si desidera che ha la meglio sugli altri orizzonti e ha il potere di trasformare lo scenario preferibile in uno scenario di realtà. Naturalmente, questo non è un potere di “tutti”, ma di “pochi”. Non sono gli individui a decidere, ormai neanche più gli Stati, ma i grandi player tecnologici: basta pensare alle grandi piattaforme digitali, Meta, Google, Amazon, e così via. L'intelligenza artificiale, per esempio, non è altro che uno strumento in grado di imporci lo scenario di preferibilità di chi ha i mezzi tecnici per realizzarlo. Si tratta, in fondo, di profezie sul futuro che qualcuno ha deciso di dover fare avverare e di cui noi diventiamo fruitori passivi, permettendo loro di entrare a far parte del nostro immaginario e muovendoci, poi, in vista di quelle finalità. Per cui il futuro porta in sé una pluralità di futuri possibili, pluralità che, però, ci viene sottratta da coloro che posseggono gli strumenti per realizzare i futuri che desiderano. Ecco, quindi, che diventa chiaro l'obiettivo più importante dei future studies: non tanto prevedere il futuro, quanto offrire una “capacità di futuro” a tutti gli individui, in modo che siano in grado di trasformare le loro visioni preferibili in futuri realizzabili.
Come si acquista questo “super-potere”?
Attraverso la politica. Non mi riferisco alla politica così come è disegnata oggi, poiché è fortemente influenzata dalle dinamiche di lobbying e dalla capacità di coloro che possiedono i capitali per realizzare futuri possibili. La politica stessa è, a sua volta, un fruitore passivo, poiché le persone oggi restano ai margini dei grandi processi decisionali. Le persone “marginali” sono sempre di più e non coincidono solo con chi vive nei Paesi in via di sviluppo, poiché anche nei paesi più sviluppati vi sono fortissime disuguaglianze economiche. Intere generazioni sono tagliate fuori da qualsiasi discorso di futuro. Il nostro obiettivo è, quindi, quello di rendere queste persone capaci di interagire, anche politicamente, nei confronti del futuro.
L'idea di futuro, ce lo insegna bene la letteratura, può essere frutto di una proiezione distopica, ma anche utopica. Oltre alle critiche e alle preoccupazioni, esistono molti “tecno-ottimisti” i quali credono che proprio le tecnologie, come l'intelligenza artificiale, saranno in grado di salvare l'umanità.
La questione del tecno-ottimismo accompagna tutta l'Era tecnologica. La tecnologia è neutrale e i suoi effetti dipendono dalle nostre scelte. Esiste, però, un'ideologia forte, che ha iniziato a emergere negli anni Ottanta, quella del “transumanesimo”, che non guarda soltanto agli aspetti positivi dello sviluppo tecnologico. Se noi accettiamo che l'essere umano sia, fondamentalmente, un coacervo di dati, ci convinciamo anche del fatto che dobbiamo divenire sempre più “performanti” rispetto alla capacità di processare questi dati. Se questo è il fine ultimo, perché non trasformarci in una macchina, ibridando l'essere umano? Se creassimo un ibrido uomo-macchina che possieda le velocità di calcolo di un computer, se riuscissimo addirittura a riversare la nostra coscienza dentro un computer, saremmo in grado di garantire alla specie umana una sopravvivenza infinita nell'universo. Questo è il fine ultimo del transumanesimo: garantire la sopravvivenza dell'umanità sul lungo periodo, al di là dell'imprevedibile. Trasferendoci su strati hardware in orbita, per esempio o su un altro pianeta o nello spazio interplanetario, potremmo superare i problemi che minacciano la sopravvivenza dell'uomo sulla terra. Si tratta di un approccio che prende il nome di “soluzionismo tecnologico”. Francis Fukuyama – nel saggio politico La fine della storia e l'ultimo uomo – diceva che la fine della storia coincide proprio con la fine dell'utopia.
Provando, ora, a cercare una sintesi tra i vasti e interessanti argomenti che abbiamo toccato e, soprattutto, tra le diverse polarità cui può tendere il futuro (tecnologico), lei crede – come immaginava Aldous Huxley ne Il mondo nuovo – che saremo in grado di costruire, quantomeno, una “distopia felice”?
Assolutamente sì. Ci troviamo di fronte a due poli opposti: da una parte, c'è chi, temendo gli effetti negativi della rivoluzione tecnologica, vorrebbe andare contro le macchine, e questa è una “controutopia” o, come la chiama Zygmunt Baumann, una “retrotopia”, che vorrebbe tornare indietro perché “si stava meglio prima”; invece, noi, possiamo utilizzare la tecnologia come strumento volto a realizzare una capacità di emancipazione che non è quella estremizzata, che sta alla base del transumanesimo, ma una capacità che conduca l'essere umano a liberarsi dai vincoli che caratterizzano il nostro attuale sistema sociale. Per esempio, l'automazione del lavoro dovrebbe liberare l'essere umano da una quotidianità di solo lavoro, valorizzando il tempo libero e il tempo dedicato all'elaborazione del pensiero. Se portassimo fino in fondo le conseguenze dell'accelerazione tecnologica, potremmo arrivare a immaginare una società in grado di superare il modello di lavoro tradizionale. Allo stesso modo, utilizzando le nuove tecnologie del metaverso, potremmo essere in grado di costruire mondi alternativi rispetto ai meccanismi della pianificazione tradizionale, di progettare gemelli digitali per gestire, ad esempio, i flussi delle grandi città, aumentare gli spazi verdi, ridurre l'impatto ambientale, costruire spazi creativi per i giovani o cohousing per gli anziani. La tecnologia è in grado, innanzitutto, di creare visioni di mondi alternativi, non siamo “obbligati” a divenire vittime delle nostre stesse distopie.
Mentre costruiamo le “distopie felici” di un futuro troppo lontano, cui non potremo assistere, cosa possiamo aspettarci da un futuro più prossimo, quello che accadrà tra vent'anni?
Il mondo ha raggiunto otto miliardi di abitanti, per cui la prima cosa che verrebbe da dire è che stiamo crescendo troppo. Così dicendo, però, non teniamo conto della dinamica contraria, quella dell'invecchiamento della popolazione che rischia di condurci verso un declino demografico. In questo, l'Italia è apripista, perché noi siamo in declino demografico già dal 2015 e tra vent'anni avremo perso due milioni di abitanti. Tale condizione inasprirà il conflitto generazionale il quale, a sua volta, potrà produrre cambiamenti radicali, oppure convogliare in una stasi economica e sociale che si diffonderà, poi, in tutti i Paesi occidentali. Intanto, però, in un continente come l'Africa, la popolazione triplicherà e ciò accadrà proprio dove le risorse sono scarse, il che non potrà che alimentare il fenomeno migratorio. La carenza di cibo, però, non sarà più un problema, perché, per fortuna, la produzione alimentare continuerà a crescere. Il lavoro, invece, scarseggerà, a causa dell'automazione tecnologica. Vi saranno Paesi dove non avverrà il classico passaggio dal mondo rurale a quello industriale e terziario, poiché molte occupazioni saranno automatizzate già dall'inizio e non come esito di un processo che avviene col tempo. Immagini cosa vuol dire: uno o due miliardi di persone senza alcuna occupazione non potranno che cercare lavoro altrove. I flussi migratori inaspriranno la conflittualità sociale, le frontiere tra i Paesi tenderanno a chiudersi sempre più.
L'accelerazione tecnologica riuscirà, secondo lei, a determinare il passaggio dall'intelligenza artificiale, come noi oggi la conosciamo, a un'intelligenza “senziente”?
Io non sono uno di quelli che crede che avremo un'intelligenza senziente, ma sono certo che avremo un aumento vertiginoso delle capacità di calcolo a rendere veramente possibile una realtà come quella, per ora solo annunciata, del metaverso. Basta pensare alla legge di Moore, una previsione che ha sempre funzionato: ogni diciotto mesi i processori raddoppiano la loro capacità. Di questo passo, dove possiamo arrivare? E anche se dovessimo raggiungere un'intelligenza disincarnata, non sarebbe a nostra immagine e somiglianza, ma un'intelligenza completamente nuova, che persegue obiettivi propri, a noi incomprensibili. Quindi, anche se non è detto che non si possa realizzare, non è quella un'intelligenza che risolverà i nostri problemi: dovrà pensare ai propri.
Si è conclusa, diversi mesi fa, una raccolta firme per chiedere all'Unione europea di prendere posizione sul reddito di cittadinanza, inteso come misura universale incondizionata, diversa dai sussidi che chiamiamo impropriamente così, in Italia. Pensa che, come prospettato da molti economisti e sociologi, una misura del genere possa avere un impatto positivo sul piano ambientale, provocando una marginalizzazione del lavoro nella vita dell'uomo, o che si tratti, invece, di una mera utopia?
Il problema del cambiamento climatico tra vent'anni non lo avremo di certo risolto, il che significa che raggiungeremo un grado in più di temperatura, con tutto ciò che ne consegue: dissesti idrogeologici, aumento del livello dei mari, desertificazione, catastrofi. L'ambiente antropico prevarrà sempre più su quello naturale, si acuiranno i disastri ambientali e, intanto, per le ragioni di cui parlavamo prima, si ridurrà il protagonismo del lavoro nella vita dell'uomo. In un tale scenario, non è assurdo pensare che il riconoscimento di un reddito di base universale possa concretizzare un'utopia disruptive, dirompente rispetto agli schemi tradizionali: affermare, cioè, che l'essere umano ha il diritto di abitare su questa Terra a prescindere da quello che possiede e da quello che produce. Non di certo per costruire una popolazione di persone obese e nullafacenti – come teme chi ha il pregiudizio rispetto a tale misura economica – ma, al contrario, per riscoprire quella che Hannah Arendt chiamava la vita activa, cioè la dimensione più autentica dell'essere umano. Questo certo che potrebbe avere un impatto positivo sulla questione ambientale, perché, oltre a ridurre produzione e consumo, libererebbe risorse di tempo destinandole alla ricerca del miglioramento.
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